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L’Egitto si dimentica in fretta e i ricordi che restano possono trarre facilmente in inganno.
Le cipolle erano così buone e la schiavitù non era poi così male; quel difetto di memoria che ti porta a pensare che si stava meglio quando si stava peggio.
La libertà si perde una parola alla volta e se ti lasci distrarre, non è neanche un processo così doloroso. Con un po’ di anestesia l’anima non se ne accorge e può cercare conforto in un gioco di simulazioni abbastanza convincenti, di consigli per gli acquisti e nella promessa di una terra che diventa il paese dei balocchi.
In fondo sono parole che non appartengono a questo tempo, figlie di una mentalità legalista, lettere che uccidono e regole di cui l’uomo nuovo non ha più alcun bisogno.
In fondo, per essere liberi, basta travisare il comandamento dell’amore e farlo coincidere con tutto ciò che desideriamo e i conti tornano a nostro favore.
Scegliere di essere liberi e mantenere vivo il rapporto con le dieci parole è faticoso e sfiancante; meglio accontentarsi di quanto offre il mercato, di una felicità “apri e gusta” o di uno dei tanti sogni “usa e getta”.
Poco importa se lasciare all’oblio quelle dieci parole, permette a qualcuno di presentarsi come il dio minore di cui abbiamo tanto bisogno.
Poco importa se la genuflessione è indirizzata ai prodigi di una tecnologia che mira al controllo dei pensieri più intimi e delle azioni che appartengono alla sfera personale e non a quella pubblica.
Poco importa se il nome di Dio potrà essere tranquillamente riscritto dal politicamente corretto di Gemini o di una qualunque altra intelligenza artificiale.
Non riuscire a comprendere la necessità che abbiamo oggi di quelle dieci parole è la premessa per un viaggio in Egitto che mostra le piramidi e nasconde le catene.
Fidarsi di quelle dieci parole è un’incognita preziosa per chi sa bene che la terra si conquista accettando anche il deserto.
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