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Si sta con gli occhi e con la bocca chiusi in attesa che quanto ha avuto inizio giunga al suo compimento. Il pane di ogni giorno e il vino della festa sussurrati in una liturgia che oltre alle vesti liturgiche, sceglie d’indossare un grembiule per raccontare la similitudine tra un pane spezzato e la vera grandezza che s’inchina di fronte al piccolo e al povero.
L’Eucaristia resta sempre un mistero e solo la fede può permettere d’intuire tutto quello che le parole non riescono a dire. Le parole cercano di spiegare al meglio delle loro possibilità, ma senza silenzi e pause quel che resta è fredda e disanimata teologia.
Lasciarsi andare, dimenticare i confini del proprio corpo per abbracciare e lasciarsi catturare da una realtà più grande che abbandona le ostilità e le violenze di questa terra per vivere pienamente il proprio essere in relazione e in comunione.
Scendere dalla giostra di chi ha sempre bisogno di sentirsi qualcosa di più di un essere umano, per scoprire che quel che siamo è più che sufficiente per prendere parte, per non essere esclusi e per veder riconosciuta pienamente la nostra realtà di figli nel Figlio. E a un mondo che parla ripetutamente d’inclusione fingendo di non vedere tutti quelli che restano tagliati fuori, vorrei cercare di rispondere con lo sforzo e la fatica di essere in comunione.
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