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Non c’è un solo giorno in cui una telecamera non prenda il posto dei nostri occhi e a volte non sappiamo più distinguere quel che appartiene a un video da quel che davvero abbiamo visto con la realtà dei nostri sensi.
Raccontiamo il mondo reale affidandoci alle immagini che qualcuno ha registrato per noi e crediamo di aver visto una guerra, anche quando lo scenario che ci è stato offerto era quello di un videogioco.
E dire che è già difficile non essere ingannati dai limiti del nostro sguardo: un particolare che ci è sfuggito, un’angolazione poco favorevole o una qualunque subdola ametropia…
Quanta sicurezza nell’affermare di aver visto quanto abbiamo solo creduto di vedere.
Il nostro sguardo è sempre in compagnia di un atto di fede o di diffidenza che possono ricostruire un fatto in termini più fantasiosi di quanto immaginiamo.
Osserviamo con le nostre emozioni, con la precomprensione di un mondo che obbedisce a regole precise e con la volontà di vedere alcuni aspetti tralasciandone altri.
Erano ombre quegli alberi o sagome di persone?
E non c’è peggiore cecità di quella che sceglie di non vedere, di non riconoscere quella nebbia che trasforma le lucciole in lanterne.
Siamo ciechi nati e bussiamo alla porta di chi può educare il nostro sguardo, di chi può aiutarci a mettere insieme la rappresentazione del mondo che abitiamo con il senso profondo di un significato che va oltre ogni immagine. E con la luce della fede possiamo raccontare le sfumature di un colore, mettere a fuoco l’orizzonte dei nostri desideri o riconsiderare il vuoto delle apparenti priorità che ci consumano dentro.
Il dono di uno sguardo è libertà di scegliere e decidere uno dei tanti itinerari di conversione che non abbiamo ancora considerato, in compagnia di chi sa leggerti dentro con comprensione, tatto e tutta la misericordia di cui hai bisogno per credere a quel che vedi e per vedere ciò in cui credi.
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