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La legge ha sempre ragione, ma questo non impedisce a chi la applica di poter essere nel torto.
Se la legittima difesa mi permette di reagire a un pugno colpendo il mio avversario, perché non riesco a provare un minimo di soddisfazione dopo aver reagito a un gesto violento con la stessa inimicizia? Non escludo a priori il compiacimento immediato, ma per quale motivo, subito dopo, mi sento così male?
Quando torno a essere solo, non importa più di tanto se qualcuno mi ha giustificato e ha detto esplicitamente che non avrei potuto reagire che in quel modo.
Quando rientro in me stesso e mi guardo allo specchio so di aver dato il mio personale contributo alle ostilità di questo mondo e prendo atto dell’imperfezione del mio essere.
E ammettendo il mio limite sto confessando l’esistenza di una perfezione, di una modalità della nostra umanità che pur avendo bisogno di una legge, percepisce la necessità di andare oltre.
La legge può anche permettermi l’esercizio di una partita doppia in cui le offese arrecate agli altri pareggiano quelle subite, ma di fronte a chi dona completamente la sua vita per la salvezza di chi lo ha appeso ingiustamente a una croce, non mi resta che il silenzio.
E quel silenzio è prezioso, è il luogo in cui maturare la volontà di trovare un accordo prima che sia troppo tardi, è lo spazio in cui puoi decidere di fare qualche passo in più ed è il santuario interiore in cui comprendere le ragioni del presunto nemico.
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