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Ci siamo un po’ persi. Possiamo continuare a negarlo, fingere che tutto stia andando bene e procedere come se nulla fosse…
Riconoscere le fondamenta della nuova Babele non è che richieda grande intuito; ci sono tracce ovunque. Le parole, spesso precedono il pensiero, si lasciano andare con grande generosità e scarsa attenzione. Ci esprimiamo ricorrendo a vocaboli presi a prestito da un’altra lingua, più preoccupati di come suonano di quel che vogliono realmente dire. Amiamo i termini forti, quelli che non ammettono repliche e desiderano mettere un punto finale all’associazione di monologhi che raccontiamo come fossero dialoghi. L’insulto pesante, l’offesa esteticamente piacevole, la menzogna pronunciata senza alcun ritegno, sono generi letterari che incontrano il consenso più di quanto non possano le analisi misurate con fatica e rispetto.
Ripetiamo inclusione ovunque e ci sentiamo cittadini del mondo, ma spesso non ricordiamo più la lingua perduta di un familiare o del vicino di casa.
Blateriamo un po’ tutti di virologia, di geopolitica o di economia, ma quando si tratta di comunicare un sentimento, un affetto o un pensiero di quelli che ci raggiungono in una notte insonne, non sappiamo più come aprire bocca.
A Dio non abbiamo riservato una miglior sorte: ne parliamo come di un qualunque argomento, con una certa freddezza o abbandonandoci al fanatismo integralista.
Eppure, soffia, ma c’è sempre un televisore acceso, un monitor che risucchia la nostra partecipazione, un qualunque rumore di fondo che ci porta altrove.
Eppure, soffia e non si lascia scoraggiare dagli indici di ascolto o dal numero di copie vendute.
Eppure, soffia e per quanto Babele canti vittoria, quella torre non resterà in piedi.
Qualcuno ricorda le parole che restano e frequenta i silenzi che edificano l’anima e le voci che si riconoscono quando si spezza un pane.
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