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Parlare di vocazione oggi fa sorridere e non solo in contesti laici. Ci sentiamo al di sopra di un contesto che riteniamo ormai superato e, al limite, da riservare a qualcuno particolarmente sfigato.
Non ho in mente solo la vocazione sacerdotale; penso a professioni che un tempo venivano vissute con quel “di più” che oggi viene a mancare. Un medico o una maestra si esprimevano oltre le loro specifiche competenze: amavano profondamente insegnare o curare e il senso del loro servizio manifestava un interesse per le persone di cui si occupavano che rimandava a un oltre difficile da spiegare. La loro autorevolezza era un dato di fatto, perché c’era qualcosa che superava le distanze di una cattedra o il gelo di uno stetoscopio che sapeva leggerti i battiti del cuore.
Le parole di un farmacista, il giornale dell’edicolante di fiducia, la divisa delle forze dell’ordine, il saluto del parroco, il pronto intervento di un idraulico… in fondo, ogni mestiere era molto più di un mestiere. Considerare la vita intera come una vocazione era segno di fiducia, di capacità di affidarsi, di riconoscimento dei doni che Dio sa distribuire così generosamente ai suoi figli.
Una comunità che rinuncia alla particolare chiamata che permette a ogni uomo di sentire il proprio posto nel mondo è un labirinto di professionisti che conoscono tanti dettagli, ma non hanno più la capacità di interpretare il senso dell’essere insieme.
Oggi, Eliseo, raggiunto dal mantello di Elia, sceglierebbe di denunciare quest’ultimo per tentato rapimento.
Oggi, Paolo, dopo la caduta, si limiterebbe a cambiar cavallo e a proseguire imperterrito nella sua direzione.
Oggi, pensare a un Dio che ti suggerisce come potresti realizzarti è considerato come l’anticamera di una forma di disagio.
Eppure, se hai raccolto quel mantello, se hai scelto d’indossarlo, vai comunque avanti e sai benissimo che da qualche parte nel mondo c’è qualcuno che riconoscerà in te quel mistero che riscalda il mondo.
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