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Caro maestro, tu la chiami cattedra, ma è solo un banco più grande, una prospettiva differente e talvolta ingannevole, un luogo leggermente più elevato che ai più corre il rischio di dare alla testa.
Se scelgo di alzarmi in piedi quando entri è perché desidero capire qualcosa di più del mondo che abito e mi auguro che anche dalla tua parte ci sia ancora un’equazione irrisolta, un periodo sospeso o una carta misteriosa da decifrare.
Sono un frutto acerbo e non mi piace quando mi osservi come se fossi solo un vuoto da riempire.
Ascolto volentieri le tue parole, ma per quanto ti sembri strano a volte riesco a distinguere, quelle che davvero ti porti dentro da quelle che pronunci per “sentito dire”.
Caro maestro, io posso apprendere se tu hai ancora il desiderio d’imparare, se riesci a essere gentile con il bidello così come col preside, se di fronte a un cielo stellato prendi coscienza di quanto siamo piccoli e vai cercando il volto di chi davvero è grande.
C’è chi passeggia per il corridoio e si accontenta degli sguardi di ammirazione e chi scruta con attenzione la stanchezza di uno studente prigioniero in un angolo e decide che quello è un luogo adatto per fermarsi a chiacchierare.
Caro maestro, genitore, politico, sacerdote o qualunque altra posizione tu abbia raggiunto, sappi che il Maestro è uno solo e siamo tutti studenti che possono e devono continuare a imparare.
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