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In calendario c’è una futura pandemia, il conflitto in Ucraina che potrebbe prendere pieghe neanche troppo inaspettate, la siccità piovosa o il nubifragio a secco; ce n’è a sufficienza per scegliersi un’apocalisse dal catalogo delle paure ricorrenti.
Siamo ormai dipendenti dalla paura e se non ci trova in casa, sentiamo il bisogno di andarla a cercare in un telegiornale, sui social o in qualunque altro circuito d’informazione che sappia alimentarla a dovere.
Siamo drammaticamente ancorati a questa vita, ma in termini di pura sopravvivenza e lontani anni luce dalla capacità di riuscire a viverla con un minimo di leggerezza e di fede.
Di paura in paura, decidiamo di tacere quel che dovremmo dire o scegliamo il luogo sbagliato, il momento poco opportuno o lo stato d’animo che conduce direttamente allo scontro.
Di paura in paura, celebriamo un Dio che conosce il numero dei nostri capelli, ma senza troppa convinzione e con l’idea che neanche lui sia in grado di mutare la nostra sorte.
Di paura in paura, progrediamo senza evolverci e abbiamo più considerazione per l’aggiornamento di uno smartphone che per quanto accade alla nostra anima.
L’ultima Parola, così come la prima, sarà ancora di Dio e non il verbo minuscolo di una serie di algoritmi prestati all’intelligenza artificiale. E non importa se il vento non sembra essere favorevole e se qualcuno ha deciso che si può fare a meno di Dio e lo afferma sempre più esplicitamente.
Una comunità cristiana non rinuncia a gridare dai tetti quello in cui crede giustificando la propria assenza dal dibattito per paura di offendere o di essere offesi.
Una comunità cristiana si fa sentire dalle terrazze e sceglie il coraggio di pronunciare a chiare lettere la propria fede.
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