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Chi non ha mai litigato con un correttore automatico? Col vecchio T9 che decide che una parola a lui sconosciuta non esiste o con lo stesso Word da cui digito, privo del suo assistente, per riuscire ad andare a capo senza quattro interventi per riga…
Le correzioni danno sempre fastidio: macchina o essere umano poco importa, l’agente che corregge è quasi sempre percepito come un grillo petulante di cui si farebbe volentieri a meno.
Il politicamente corretto gode di un certo favore, perché sappiamo che si risolve nella scelta di parole adeguate e non tocca più di tanto la sostanza.
Quella che chiamiamo correzione fraterna, almeno nella forma più diffusa, è spesso viziata all’origine da un’antipatia, un desiderio di rivalsa, una volontà di ferire o da una presunzione di superiorità che non produce gli effetti desiderati.
Spesso ignoriamo quanto suggerisce il Vangelo e amiamo invertire l’ordine dei fattori: prima la correzione passa dalla piazza o meglio ancora dai social, poi ne parliamo in piccoli gruppi e talvolta, evitiamo accuratamente il confronto col diretto interessato.
Per correggere gli altri servirebbe uno sguardo limpido e non è così semplice affrontare il torbido che ci portiamo dentro per evitare che la trave nell’occhio risulti un po’ troppo evidente.
Per correggere gli altri le nostre intenzioni dovrebbero essere libere dalle ombre della gelosia, dell’odio e da qualsiasi tornaconto personale.
Per correggere gli altri occorre quella forma di affetto che realmente si preoccupa del bene del fratello e questo, lo sappiamo benissimo, accade raramente.
Solo chi fa largo uso di coscienza e di auto-correzione sa quanto è faticoso accettare la propria fragilità: per correggere gli altri è sempre bene tenere a mente come si sta in compagnia del proprio errore.
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